Ritratto di famiglia

Lui ha 11 anni. Spesso cammina incespicando, come se qualcosa volesse trattenerlo dal contatto con la terra, l’aria di chi ha perso il filo dei pensieri chissà dove, chissà per chi. Scrive sempre, la sua Olivetti di terza mano è l’oblò da cui guardare a un mondo che non ha ancora sfoderato tutti i misteri, i sorrisi e le trappole di cui è capace. Un mondo che esiste al di là della coltre della fantasia, ben oltre il limo dei sogni di bambini svagati. Prima di andarsene mi dice, sai già cosa farai in agosto? Lui non sa, non può sapere, che forse mi perderò in uno strampalato on the road del cazzo tra Calabria e Croazia, deciso all’ultimo momento per dimenticare i due volti spessi come le lame di una forbice. Come due cicatrici da cui non mi libererò mai

Lei ha 45 anni. Passa la sera abbracciata a me. Ha bevuto. E’ arrivata in ritardo, la cena è iniziata da un’ora circa. Il brusio del ristorante e il via vai dei camerieri in polo nera è il contraltare a parole smozzicate, pronunciate da chi sa di essere sul punto di dire troppo. Ha bisogno di una sigaretta, dice. E che cazzo, mi serve aria, non posso stare incastrata qui dentro, mi si attacca la pelle del culo sulle poltroncine, dice. Mi invita a seguirla. Fumiamo ridendo delle sue cazzate, di un’asta di beneficenza affogata nel bicchiere. C’erano anche le mie foto, dice. Come quella che hai visto nel negozio di pelletteria in centro. Non capisci? E qual è il problema?, faccio io. Lei: oio farmi fotografare, odio farmi vedere così, nuda, come tu mi stai vedendo adesso.
Ti dispiacerebbe toccarmi il culo? Come scusa?, rispondo. No niente, ti dispiacerebbe toccarmi il culo? Tu puoi, lo sai. Voglio solo sapere da te se lo trovi sodo come quando avevo vent’anni. Mezz’ora dopo è seduta sul marciapiede. Mi dice, non ho mai conosciuto mio padre. Cioè, lui è sempre stato in casa con noi, ma era mia madre a occuparsi di tutto. Lui niente. Io avrei voluto anche solo una parola, un gesto per farmi capire che anch’io vivevo in quella casa assieme a loro, e invece non ho mai avuto niente. Penso a me stessa da quando avevo 14 anni, non ho mai avuto nessuno vicino a me, solo storie sbagliate. E se ora tiro avanti è solo perché ci siete voi con me. Allenarsi assieme è l’unico appuntamento conficcato dentro a una settimana in cui i giorni in archivio seguono altri giorni in archivio. Poi arriva il sabato e con esso la domenica, una coppia maledetta che già dal venerdì mi preparo ad affrontare riducendomi in questo modo, ogni santo fine settimana. Ora lo sai. Ora che sai tutto di me, puoi toccarmi il culo. Così, giusto per vedere se ce l’ho ancora come quando avevo vent’anni.

Lei di anni ne ha 50, forse meno: il resto sono rughe, pelle abbronzata e una fossa in mezzo al viso da cui spuntano due occhi di un blu ungherese. Ama il marito, ma lo odia da quando non parla più, rinchiuso in una gabbia che sono sogni e disegni, compagni di una vita trascorsa a braccetto con topi e paperi. Mi guarda come se pensasse vorrei ammazzarlo, lui, i suoi maledetti silenzi e la vita che di colpo è diventata una trappola milionaria. Mi guarda mentre tocco il culo all’altra e ride, occhio cara vedi di non farlo innamorare, sai, lui è un tipo romantico. Poi torna alla sua Camel Blu, che ha acceso dopo aver spento col tacco una Camel Blu. Sa che tra mezz’ora ci saluteremo, ognuno diretto alla propria casa. Il corso è finito, almeno per quest’anno. Si ricomincia in settembre, ma in un’altra palestra e con altri orari. Da qui a settembre niente lezione, niente bevute, niente crepes mangiate tra le pieghe d’aria che il Ticino partorisce di notte, verso le due, quando i pavesi dormono e noi restiamo lì a guardare questo buco ostile in cui ci siamo infilati per sbaglio, per scelta, per amore oppure per una segreta vocazione al martirio emotivo.

Io ho 34 anni, 9 mesi, 10 giorni. 11 giorni, è passata la mezzanotte. Ho trascorso gli ultimi mesi a guardare sogni di bambino infrangersi contro scogli troppo affilati. Niente che possa essere scalfito. Ho passato gli ultimi dieci anni ignorando di muovermi in un contesto, come se i miei gesti avessero un valore assoluto che in nessun modo si sarebbe imbastardito con il resto. Fa fresco, e il fresco di questa notte pavese senza crepes e senza te mi porta alla mente tutte le volte in cui abbiamo camminato per Pavia affrontando quell’umido di merda che d’inverno ti scioglie i pensieri e d’estate te li squaglia. Questa città non è più ostile, dicevi, ma bugie e paure l’hanno resa un inferno indifferente.

Guardo tre persone. Uno con le scarpe che non sa riallacciare. Una alle prese con i pianti dell’adolescenza che ritornano a farsi vivi passando attraverso l’esofago. La terza trangugia sigarette e bocconi amari, mastica rabbia. Parla di vacanze nei Balcani, ma ormai non l’ascolta più nessuno. Io abbraccio il primo, lo saluto prima delle vacanze. Abbraccio la seconda, le tocco il culo una seconda volta per essere sicuro di non essermi sbagliato la prima. Comunque ce l’ha sodo da fare invidia a molte ventenni, e ciò è bene. Abbraccio la terza persona. Mi chiede, quando ci vieni a trovare? Quel “ci” è un parolone, perché significa chiacchierare con lei mentre il marito disegna, sogna, si perde nel labirinto dei suoi mondi interiori.

Guardo tutti e tre. Faccio sparire i preconcetti, le teorie, ciò che so di loro, ciò che sanno di me. E i miei dieci anni di movimenti senza contesto spariscono, anche solo per un attimo. Siete la mia famiglia, mi dice baciandomi sul collo mentre ritraggo la mano ormai soddisfatta.

Anche voi, rispondo. Anche voi.

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Una risposta a Ritratto di famiglia

  1. masticone ha detto:

    che fine hai fatto?

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